© foto di Enrico Romanzi
La torre dei Balivi, da prigione a conservatorio
Se chiedessimo ai cittadini di Aosta o ai valdostani in generale quale sia la Torre dei Balivi, forse rischieremmo di ottenere in molti casi risposte vaghe e dubbiose; ma se chiediamo loro dove si trovavano le prigioni fino al 1984, allora risponderebbero tutti con certezza: in via Guido Rey, all’angolo con via Antica Zecca, più o meno dietro Sant’Orso!
Ebbene sì… quella è la Torre dei Balivi che, con i suoi 25 metri, è la più alta tra le torri storiche della città di Aosta; dalla sua sommità si gode di un’incredibile vista a 360º sulla Plaine e i suoi dintorni.
Per l’esattezza ci troviamo in corrispondenza dell’angolo nord-orientale delle mura romane e la Torre stessa è effettivamente una torre romana poi rimaneggiata e sopraelevata nel XII secolo dalla nobile famiglia dei De Palatio: un’epoca in cui la dimora, meglio se una torre fortificata, doveva svettare per dimostrare la potenza e la ricchezza dei suoi proprietari.
Un’epoca in cui abitare direttamente sulle mura costituiva un inequivocabile status symbol. Venduta poi ai Savoia, divenne la sede dei Balivi, i rappresentanti in Valle del potere sabaudo, incaricati di amministrare la giustizia e riscuotere le tasse. La funzione di tribunale incluse ben presto anche quella di prigione, fino a che, nel 1600, i Balivi decisero di trasferirsi in un’altra sede per non stare più a così stretto contatto coi carcerati, che nel frattempo, essendo aumentati, necessitavano di più spazio oltre alle tremende segrete del sottosuolo.
Quegli spessi muri grigi, quelle sinistre finestrelle a grate plurime, quell’inquietante torrione d’angolo in pieno centro città sono stati una prigione per secoli… fino al 1984, appunto. L’iniziale abbandono; poi la svolta. 14 anni di lavoro tra progettazione e lavori per far rivivere un complesso monumentale di assoluto rilievo storico e rifunzionalizzarlo a nuova e prestigiosa sede del Conservatorio. Non solo museo di se stesso, quindi, ma molto di più: un luogo di cultura al servizio della città.
Difficilmente in passato si potevano immaginare i veri e propri “camei” racchiusi tra quelle mura: affreschi, camini monumentali, ariose ed eleganti finestre crociate, fino ai graffiti lasciati nel tempo dai tanti prigionieri: dai più ironici e caricaturali, fino a vere e proprie grida d’aiuto.
Un complesso cantiere pluridisciplinare dove si sono incontrate e scontrate diverse professionalità, ognuna con le sue esigenze, la sua metodologia, la sua tecnica. Architetti, urbanisti, restauratori, archeologi, storici dell’arte, strutturisti, impiantisti… e l’elenco potrebbe continuare.
Un cantiere che, nonostante le innegabili difficoltà, ha dato risultati importantissimi sotto diversi aspetti; in primis restituendo alla comunità un tassello della sua storia e del suo patrimonio.
(Stella Bertarione)